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La Spagna di Hemingway




L’eterno paradosso di vita e morte, la loro dicotomia, il fatto che l’una richieda l’esistenza dell’altra e allo stesso tempo la loro mutua esclusione è uno dei temi ricorrenti nella letteratura di Hemingway e, forse, uno dei più forti. Lo si può notare nei dettagli che sceglie per le sue storie, come l’odore della morte che compare sui toreri prima di una corrida che finirà male; ma anche in modo più esaustivo nei suoi personaggi e trame, nelle attività che prediligeva in vita, come la pesca e la caccia grossa in Africa e, soprattutto, nei luoghi della sua giovinezza.


Nessun luogo, però, ha segnato la carriera, e la vita, di Ernest Hemingway come la Spagna.

Citando Per chi suona la campana, il suo romanzo più riuscito ambientato nella penisola Iberica:

“Spagna,” disse con voce amara la donna di Pablo. Poi, volgendosi a Robert Jordan: “C’è della gente simile anche in altri paesi?”

“Non c’è nessun paese come la Spagna.”

Come dice lui stesso in una delle lettere, la Spagna è “l’ultima buona nazione rimasta.” La descrive come il luogo dove sarebbe dovuto nascere, il paese che più lo fa sentire a casa, lontana dall’evoluzione suburbana degli Stati Uniti negli anni ’20 del novecento. La gira tutta, in lungo e in largo, e la riporta con orgoglio sia nei suoi lavori giornalistici che nei progetti di narrativa.

Come un’onda sul bagnasciuga, che va e viene ma ritorna sempre, Hemingway approccerà tardi in vita la stessa Spagna che lo aveva affascinato da giovane, tornando a raccontare le corride dopo un lungo periodo passato a fare il reporter durante la guerra civile.

Fiesta è il primo romanzo che piazza Hemingway sul piano internazionale, e non è un caso che parli della Fiesta di San Firmin.

Interessante notare che il titolo inglese dell’opera è: The sun also rises (tradotto in italiano generalmente con Il sole sorgerà ancora) e che in spagnolo si è deciso di mantenere il titolo Fiesta. Questo ha probabilmente a che fare con il suo essere straniero, con il suo vivere i paesi baschi un po’ come oggi farebbe uno studente in Erasmus, abbagliato dalla giovialità delle celebrazioni.

In fin dei conti, la Fiesta è fatta di due elementi principali: il vino e i tori. Persino nel linguaggio si evita di solito di usare il termine corrida: gli spagnoli, al tempo di Hemingway, dicevano di andare a los toros, letteralmente ai tori, tanto per sottolineare l’importanza che l’animale ha nel contesto della ricorrenza ma anche nella cultura del paese.

Oggi il tema della corrida è controverso e rischia di suscitare reazioni violente da ogni lato si decida di guardarlo. Nel contesto di questo articolo, però, mi permetto di suggerire che è importante non giudicare il passato con gli standard del presente.

Hemingway diviene un aficionado delle corride. Frequenta toreri, scrive di loro, regala al festival una popolarità senza precedenti. Una popolarità che lui stesso, oltre che molti tradizionalisti baschi, rimpiangerà quando, nel 1959, tornerà in Spagna e a Pamplona per conto della rivista Life, scrivendo gli articoli che poi verranno pubblicati nella raccolta: Un’estate pericolosa, ancora una volta ode alla morte e al coraggio di guardarla negli occhi.

Proprio a Pamplona, di fianco alla Plaza de Toros, c’è un busto dello scrittore che recita così: “Ernest Hemingway, premio Nobel per la letteratura, amico di questa città e ammiratore delle sue fiestas, le quali ha abilmente descritto e divulgato.”

A chiunque storca il naso alla parola “ammiratore,” vorrei riportare però una frase attribuita al matador Luis Miguel Dominguin: “Nessuno conosce i tori, tranne le mucche, e neanche tutte.”

A chiunque decida di leggere Fiesta invece, voglio dire che, se non ci si perde troppo nei bellissimi dialoghi tra Jake e Brett, la Spagna che descrive Papa è ancora là dove l’ha lasciata. Certo, magari non nel ristorante Botin, chiamato da Hemingway stesso “uno dei ristoranti migliori del mondo” e quindi condannato a diventare un ritrovo per americani ricchi e senza originalità, privato per sempre di ciò che lo rendeva autentico. Magari non è più plausibile montare sulla corriera che si arrampica sui Pirenei fino a Burguete, o nascondersi tra i boschi della Sierra Guadarrama come i guerriglieri di Per chi suona la campana, ma è ancora possibile trovare un passante generoso abbastanza da offrirvi un sorso di vino in una giornata calda.

Hemingway è attento a descrivere certi luoghi con precisione chirurgica, mentre altri li nasconde con maestria nella sua prosa. Nelle sue gite sul fiume Irati, per esempio, è sempre attento a non dire troppo, a non confessare a quale altezza si è fermato per pescare trote, nella speranza che un giorno potrà tornare a godersi un pomeriggio di riposo sulle stesse rive senza trovare cinquanta macchine o jeep a intralciare il passaggio: come dice dopo essere tornato lì nel ‘59.

Purtroppo, però, non avrà più questa possibilità.

Madrid è un’altra destinazione a lui cara. In Morte nel pomeriggio, l’ennesimo reportage

attorno alle corride, la descrive così: “Madrid è una città di montagna con un clima di montagna. Il suo cielo è alto e senza nuvole, fa sembrare il cielo Italiano sentimentale e l’aria è piacevole da respirare…” “…Se avesse null’altro del Prado varrebbe la pena passarci un mese ogni primavera, avendo abbastanza soldi per passare un mese in una capitale Europea. Ma quando hai il Prado e la stagione delle corride e insieme El Escorial neanche due ore a nord e Toledo al sud, una strada divina per Avina e per Segovia, che non è distante da La Granja, ti fa sentire male, ogni sguardo all’immortalità messo da parte, sapere che un giorno dovrai morire e che non lo potrai ammirare di nuovo.”

Parole forti, ma la Spagna è un paese forte, vero, che si può abbandonare ma che difficilmente abbandona il cuore di chi la visita; un po’ come la letteratura di Hemingway.


Articolo scritto da Francesco Sarti

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